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Attacchi di panico, ansia e inibizione Il sintomo “maschera del desiderio Che cos’è un sintomo? Tutti ne conoscono grosso modo il significato comune: una febbre, un dolore, una tumefazione insolita che preoccupano, segnali del corpo che ci portano a bussare alla porta dello studio del medico. Ma un sintomo psicologico che cos’è? Può essere qualcosa di molto evidente e paralizzante come un attacco di panico: chiunque abbia provato i sintomi che accompagnano un attacco di panico, la tachicardia, la mancanza di respiro, l’irrigidimento, che spesso conducono al Pronto Soccorso, non lo può scordare: la sensazione angosciosa di un attacco di panico è indimenticabile e porta chi lo ha subito a cercare assolutamente un rimedio, un vero e proprio “riparo”, che metta al sicuro dalla possibilità di sperimentarlo di nuovo. Altre volte si tratta di sintomi meno vistosi ma non per questo meno angoscianti: paure e difficoltà ad affrontare l’esterno, talvolta anche la “semplice” giornata quotidiana. Oppure pensieri ricorrenti e ossessivi, che intralciano lo svolgersi delle normali attività, il lavoro, le scelte in campo affettivo… Un sintomo psicologico è certamente la manifestazione di un malessere, più o meno grave, ma è anche qualcosa che costringe il soggetto a cercare un rimedio, un aiuto, qualcuno che lo possa aiutare a decifrare di che cosa si tratta. E quindi, in fondo, è una spia che lo induce a interrogarsi su cosa non va, puntando dritto a ciò che probabilmente costituisce una impossibilità soggettiva. Interrogare il sintomo psicologico è perciò il primo passo perché si possa scoprire qualcosa di quello che il sintomo stesso nasconde. É in questo modo che scopriamo che non appena il soggetto, a partire dal sintomo, dall’enigma del sintomo, prende la parola su di sé, su ciò che ha da dire in proposito, le cose si modificano, e anche in modo sorprendente. Un’interrogazione guidata di ciò che il soggetto denuncia come malessere porta alla scoperta di “verità” sulla propria questione personale che non possono essere senza effetto e senza risultati ben presto sperimentabili. Per questo potremmo quasi dire che, in fondo, il sintomo psicologico è una “maschera del desiderio”, un modo in cui qualcosa che non va domanda di essere compreso, e il soggetto, accanto al malessere del sintomo, rivela anche un desiderio di sapere, sapere che può ribaltare il punto di partenza: dalla sofferenza del sintomo alla scoperta di un sapere su di sé che riapre i termini della propria “questione soggettiva”, e quindi delle proprie possibilità espressive e di vita

Oggi si sente molto parlare di depressione come patologia in aumento, quasi come una sorta di male caratteristico del nostro tempo, se non addirittura il “male del secolo”. Ma in fondo la depressione, un tempo denominata in vario modo, come esaurimento nervoso, brutto male o male oscuro, è sempre stata presente e temuta nell’immaginario popolare. Giustamente, dato il malessere che porta con sé, un malessere che fa temere talvolta per la stessa salvezza della vita. Ma che cos’è la depressione? E il “dolore psichico” che la caratterizza, oltre che naturalmente i sintomi più noti e considerati dalla psichiatria (la stanchezza, l’insonnia, o, al contrario, l’ipersonnia, il ritiro sociale, ecc.)? Sul fronte biologico e medico sono state fatte negli ultimi decenni molte significative scoperte sui meccanismi chimici e neurologici che accompagnano la depressione e ne sono in qualche modo responsabili. Molti farmaci, indubbiamente efficaci, sono stati messi a punto dalla ricerca e dall’industria farmacologia per intervenire su questi meccanismi e favorire un miglioramento dello stato depressivo. Eppure la depressione non è tutta qui, e i farmaci, oltre a indurre una dipendenza che può durare tutta la vita, in una significativa percentuale di casi falliscono, oppure portano a un successo iniziale che, purtroppo, non persiste nel tempo. Fortunatamente, c’è un versante psicologico delle forme depressive che è possibile interrogare, mettendo “al lavoro” il soggetto che ne soffre. Interrogando il soggetto, permettendogli di parlare sufficientemente a lungo, è possibile rintracciare, nelle maglie del suo discorso, che lo “stringe” in un orizzonte chiuso nel quale non intravede più interessi né speranze, uno spiraglio che permetta una riapertura. É possibile intervenire perché questo “orizzonte grigio” si apra, a partire dal dire del soggetto, dall’universo di discorso che, nella depressione, non prevede per lui una “rimessa in gioco” del desiderio. Perché di questo si tratta, di rimettere in gioco il desiderio, il desiderio come ciò che consente all’essere umano di coniugare insieme il proprio volere con le condizioni che ne rendano possibile il suo esercizio. L’orizzonte del desiderio è ciò che più caratterizza l’essere umano e le sue potenzialità espressive, che più ne può rappresentare la realizzazione. Orizzonte che è cosa ben diversa dal poter utilizzare i tanti oggetti “prêt-a-porter” del consumo che la nostra società post-moderna ci mette a disposizione: oggetti che, in apparenza, sembrano rispondere ad ogni possibile mancanza, saturare ogni possibile bisogno, ma che, in realtà, non vanno a incidere sull’ unica dimensione che può riaprire l’orizzonte del desiderio soggettivo, diverso da persona a persona, e non riducibile semplicemente a un “oggetto di consumo”. Desiderio che non può essere assunto a meno che non riesca a dirsi in un luogo che offre la garanzia di una ricerca autentica per il soggetto, ritrovando le coordinate che ne permettano il riconoscimento e, quindi la possibilità di una sua assunzione. Si tratta di fare in modo che questa “china depressiva”, la china del declino del desiderio possa essere rimessa in discussione: unica possibilità perché il desiderio si “declini” verso nuove mete e ci sia un’apertura che permetta un’effettiva uscita dalla depressione, perché il soggetto, anziché ‘arretrare’ davanti al suo desiderio, possa ritrovare le ragioni che gli consentano di assumerlo pienamente. É per questo che occorre un’interrogazione soggettiva, unica, personale, assicurata quanto ai modi del poterne parlare, di contro a un farmaco universale, e quindi impersonale, la cui incisività mira alle cellule o alle molecole di cui siamo sì fatti in quanto possediamo un corpo, ma non in quanto ci rende più umani, dimensione alla quale non possiamo sfuggire, più ancora di quanto non possiamo sfuggire alla necessità biologica dell’avere un corpo. Interrogazione soggettiva che può essere condotta solo a certe condizioni, in un luogo unico, perché abbia valore, perché risulti l’unica che possa autenticamente riaprire i termini della questione personale che ci contraddistingue come esseri di parola, come parlesseri (neologismo introdotto da Jacques Lacan per indicare che l’essere umano è un essere di parola). E di questo infatti possiamo dare testimonianza, questo possiamo trasmettere come ciò che più ci caratterizza in quanto parlesseri, come di qualcosa che non muore, né si spegne, pena la depressione: del desiderio di cui siamo portatori come soggetti
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